Diritto penale, società tedesca, contestazione nazionale di esterovestizione, stabile organizzazione in Italia, Direttiva 2011/16/UE recepita dal d.Igs. n. 29 del 2014, sequestro preventivo penale, Corte di Cassazione, III Sez. pen., sent. n. 2407 del 22/01/2018

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Diritto penale, società tedesca, contestazione nazionale di esterovestizione, stabile organizzazione in Italia, Direttiva 2011/16/UE recepita dal d.Igs. n. 29 del 2014, sequestro preventivo penale, Corte di Cassazione, III Sez. pen., sent. n. 2407 del 22/01/2018

Linee essenziali delle argomentazioni della Suprema Corte di Cassazione

Ricorso avverso la ordinanza del Tribunale del riesame di MACERATA in data 30/12/2016.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 30.12.2016, depositata in data 30.01.2017, il Tribunale del riesame di Macerata confermava il decreto di sequestro preventivo emesso in data 11.11.2016 dal GIP/tribunale di Macerata, rigettando l’istanza di riesame proposta in data 22.12.2016 nell’interesse di …..

2. Giova precisare, per migliore intelligibilità dell’impugnazione, che il provvedimento impugnato seguiva l’emissione da parte del GIP di un decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, fino a concorrenza dell’importo di € 8.480.615,37 per gli anni di imposta dal 2009 al 2015, avente ad oggetto denaro e beni analiticamente indicati nei verbali di esecuzione in atti descritti, nei confronti di …., indagato del reato di omessa dichiarazione IVA ex art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000 nella qualità di socio unico e legale rappresentante della …….GMBH.

3. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia di …….., iscritto all’Albo speciale ex art. 613 c.p.p., prospettando cinque motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

3.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., sotto il profilo della violazione degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione all’art. 49, TFUE, del considerando n. 4, 5, 7 ed 8, reg. n. 904/2010 direttamente applicabile e del considerando 2 della direttiva 2011/16/UE come recepita dal d. Igs. n. 29 del 4.03.2014 all’art. 2, co2., ed alla luce dell’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000.

In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che l’ordinanza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge per non essersi attivata la cooperazione internazionale di cui al reg. 904/2010 ai fini della riscossione dell’IVA; dopo aver richiamato il considerando n. 7 del predetto regolamento e l’interpretazione del medesimo fornita dalla sentenza GUE 17.12.2015 in causa C-419/14, sostiene anzitutto il ricorrente che si sarebbero dovute richiedere al Fisco tedesco informazioni al fine di accertare in quale Stato fosse dovuta l’IVA e per avere contezza precisa del tipo di struttura operativa che la società amministrata dall’indagato aveva realizzato in Germania; gli Stati membri, dunque, non possono limitarsi a controllare i contribuenti per l’imposta dovuta nel loro territorio, ma in caso di contestazioni nazionali, devono anche richiedere e fornire assistenza agli altri Stati, al fine di comprendere la corretta modalità di applicazione nell’imposta nei due Stati; nel caso di specie ciò si sarebbe verificato, in quanto l’Italia contesta implicitamente l’inesistenza del diritto della Germania di percepire le imposte maturate sugli utili prodotti dalla società di diritto tedesco; richiamando, ancora, il contenuto della direttiva 2011/16/UE recepita dal d. Igs. n. 29 del 2014 e, segnatamente, il considerando n. 2, dopo aver sottolineato la natura autoapplicativa della direttiva in questione, se ne ribadisce la violazione da parte dei giudici di merito, in quanto nel caso in esame il controllo delle operazioni transfrontaliere non poteva prescindere dalle informazioni messe a disposizione dalla Germania; i giudici sarebbero, sul punto, incorsi in un equivoco richiamando erroneamente il contenuto della sentenza CGUE 17.12.2015 citata laddove sostengono la non obbligatorietà della cooperazione internazionale, laddove, infatti, detto obbligo discenderebbe dal § 59 della motivazione della sentenza, sicchè non sarebbe stato possibile contestare l’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000, senza prima far luce sulla situazione giuridica mediante il ricorso alla cooperazione internazionale e aver verificato i fatti accaduti in Germania e la situazione fiscale della società tedesca; le indagini svolte dagli organi italiani sarebbero all’evidenza lacunose e illegittime, essendo peraltro il provvedimento impugnato “disseminato” di questioni inerenti la mancanza di ufficialità o per difetto di traduzione dei documenti che faticosamente ma diligentemente la difesa aveva prodotto in sede di riesame (comunicazione della GdF tedesca e richiesta di trasferimento della contabilità depositata all’estero con attestazione che gli originali si trovano in Germania; dichiarazioni rilasciate in sede di indagini difensive dal commercialista tedesco della società ……; bilanci depositati relativi agli anni 2009/2015); detta documentazione avrebbe dovuto essere ufficialmente raccolta dalle autorità italiane, durante la fase delle indagini preliminari, ciò anche in relazione alla questione di rapporti tra la società tedesca e la società …. di cui la prima era mandante e la seconda agente plurimandatario.

3.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., sotto il profilo della violazione dell’art. 10-bis, co. 13, d. Igs. n. 74 del 2000, dello St. contrib., in combinato disposto con l’art. 17, co. 2, d.p.r. n. 633 del 1972 ed in relazione all’art. 2 c.p. e all’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000.

In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente, dopo aver operato un’ampia digressione in ordine alla distinzione tra evasione ed elusione/abuso del diritto, che la c.d. esterovestizione che viene contestata all’indagato nel procedimento in esame costituirebbe una specie del genus abuso del diritto, a tal proposito richiamando quanto affermato non solo dalla CGUE in alcune decisioni (si richiama in ricorso la sentenza …….del 12.09.2006), ma soprattutto da questa Corte nella sentenza n. 2869/2013 nella vicenda ……che presenterebbe molteplici punti di contatto con quella in esame, in quanto la ….., al pari della …., ha ricevuto la contestazione, tra le altre, di usufruire del regime IVA delle cessione intracomunitarie al fine di evidenziare un prezzo più competitivo rispetto ai concorrenti; si sostiene che, non essendo stata indagata la realtà tedesca, l’artificiosità dell’operazione (abuso del diritto di stabilimento) non sarebbe stata in alcun modo verificata; in ogni caso, si osserva, quand’anche ciò si ritenga provato, l’abuso del diritto nel nostro ordinamento non avrebbe più rilevanza penale per effetto del disposto dell’art. 10 bis St. contrib., salve le ipotesi di elusione codificata, ossia nei casi di operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguono finalità antielusive, operazioni che devono contraddistinguersi per un quid pluris nel senso che la condotta deve avere una connotazione fraudolenta, ingannevole, mendace nei confronti del Fisco; nella specie, la …. non avrebbe posto in essere alcuna attività così connotata, ma anzi sarebbe stata registrata dall’indagato in Italia in tempi non sospetti, ottenendo una partita IVA italiana e dichiarando di essere egli l’amministratore, residente in Italia, di una società avente sede in Germania; in definitiva, quindi, il fatto ipotizzato, secondo la difesa, non rappresenterebbe una esterovestizione, ma solo un’ipotesi di elusione o abuso del diritto non codificato, rientrante nel co. 13 dell’art. 10 bis citato, privo di effetti penali, peraltro applicabile retroattivamente ex art. 2, c.p.; peraltro, si osserva, a differenza di quanto erroneamente affermato nell’ordinanza impugnata, la …. non avrebbe applicato il meccanismo di cui all’art. 17, co. 2, d.P.R. n.’ 633 del 1972 che riguarda il c.d. reverse charge domestico, ma l’art. 41, co. 1, lett. a), d.l. n. 331 del 1993 riguardante le cessioni intracomunitarie non imponibili; le operazioni della ….. GMBH, dunque, sarebbero state regolarmente assoggettate ad IVA sulla base delle norme stabilite dal predetto d.I., sicchè il giudice del riesame avrebbe erroneamente applicato l’art. 10 bis, co. 12 St. contrib., in combinato disposto con l’art. 17, d.P.R. n. 633 del 1972, nella specie inapplicabile.

3.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., sotto il profilo della violazione dell’art. 321 c.p.p. e degli artt. 240 c.p. e 322 ter c.p. e dell’art. 1, co. 143, legge n. 244 del 2007. In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che i giudici del riesame non avrebbero tenuto conto dei principi affermati dalla nota sentenza …. delle SS.UU. penali di questa Corte, circa i limiti della sequestrabilità per equivalente dei beni della persona giuridica per i reati tributari commessi dal legale rappresentante; in particolare, si sostiene, essendo mancata la già richiamata cooperazione internazionale, non vi sarebbe prova della fittizietà assoluta della persona giuridica, condizione per la sequestrabilità imposta dalla sentenza …..

3.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., sotto il profilo della violazione dell’art. 4, d.p.r. n. 633 del 1972, erroneamente richiamato. In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che non apparirebbe condivisibile il richiamo alla norma di cui sopra, che nulla prevede circa i criteri per individuare la residenza nel t.n. del soggetto passivo (definito dalla norma in questione e dal successivo art. 5), come invece previsto per le II.DD. dall’art. 73, TUIR; nella specie l’art. 4 non poteva essere richiamato perché la merce proveniva dall’Austria, circostanza questa incontestata.

3.5. Deduce, con il quinto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., sotto il profilo della violazione degli artt. 43 c.p. e 5, d. Igs. n. 74 del 2000, per difetto di dolo in relazione alla presunta esterovestizione integrata ictu oculi, e per mancato vaglio ad opera dei giudici del riesame dell’elemento psicologico nell’ambito del fumus delicti.

In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che i giudici del riesame avrebbero esaminato solo parzialmente gli elementi in atti, senza considerare quelli difensivi che comprovavano l’esistenza di un progetto di vita e residenza in Germania dell’indagato, laddove si consideri che l’attività esisteva già da 25 anni e non aveva mai avuto problemi, ciò che rendeva “lampante” la mancanza di dolo e l’impossibilità di configurare in capo all’indagato la volontà di vendere a prezzi concorrenziali omettendo di pagare l’IVA; questi avrebbe corrisposto le imposte in Germania dal 1993 al 2015 sicchè non sarebbe spiegabile come mai questi nel 2009 avrebbe dovuto sospettare che l’attività incardinata in Germania fosse illegittima; in difetto di un dolo specifico, la cui mancanza era evidente, la misura cautelare non avrebbe potuto essere dunque disposta.

4. Con requisitoria scritta depositata presso la cancelleria di questa Corte in data 30.05.2017, il P.G. presso la S.C. di Cassazione ha chiesto il rigetto del ricorso; in particolare, osserva il PG.:

a) quanto al primo ed al quarto motivo, rileva il P.G. che dalla ricostruzione in atti, era evidente che nel caso di specie si versava in un caso di esterovestizione, donde la esistenza dell’obbligo fiscale della …. GMBH, avente residenza fiscale all’estero, di presentare in Italia la dichiarazione annuale IVA avendo stabile organizzazione nello Stato, dove avveniva la gestione amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari per il raggiungimento del fine sociale; b) quanto al secondo motivo, se ne rileva l’infondatezza, in quanto doveva escludersi l’ipotesi di mero abuso del diritto, in quanto l’indagato, oltre ad aver conseguito un vantaggio fiscale indebito, aveva violato direttamente una norma fiscale, ossia quella dell’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000; c) quanto al terzo ed al quinto motivo di ricorso, rileva come la misura cautelare fosse stata disposta in relazione all’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000 con riferimento ad un ammontare di imposta evasa qualificabile come indubbio vantaggio patrimoniale derivante dalla condotta illecita e qualificabile come profitto del reato, senza peraltro che possa rilevare la questione della sussistenza del presunto difetto dell’elemento psicologico, non essendo tale mancanza di immediato rilievo come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità; d) infine, si ritiene legittima la scelta del P.M. di prevedere il sequestro diretto nei confronti dell’ente e per equivalente nei confronti dell’indagato e dell’esecuzione del provvedimento a fronte della parziale incapienza delle risorse societarie, atteso che la somma sequestrata sui cc/cc intestata alla …… è pari a 182.179,05 € nettamente inferiore al profitto del reato tributario, ipotizzato in € 8.480.615,37.

5. Con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte in data 18.09.2017, la difesa del ricorrente allega il provvedimento adottato ex art. 13, Statuto contr. dal Garante del contribuente per la Provincia autonoma di Trento, con cui si è censurato il comportamento della GdF non per quanto concerne l’esistenza o meno della esterovestizione, essendosi dichiarato il Garante incompetente a decidere, quanto per la tempistica della sua applicazione nonché in relazione agli errati riferimenti alla normativa IVA ed ai presupposti della sua applicabilità.

CONSIDERATO IN DIRITTO

6. Premesso che quanto depositato in data 18.09.2017 dalla difesa del ricorrente non rileva agli effetti del presente giudizio, atteso che è lo stesso Garante del contribuente a precisare di non essere competente a pronunciarsi sulla sussistenza o meno, nella vicenda in esame, di una esterovestizione, spettando ai giudici tributari (e, ovviamente, si aggiunga, a quello penale, in caso di contestazione di reato tributario) accertarne la configurabilità, il ricorso è infondato.

7. Ed invero, rileva il Collegio, in ciò condividendo quanto argomentato dal P.G., il ricorso proposto dalla difesa del ricorrente dev’essere complessivamente rigettato. In via preliminare, questa Corte osserva che, in tema di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen. consente il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge. Nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, e anche i vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, come tale apparente e, pertanto, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013, Rv. 254893; Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Rv. 245093). Non può, invece, essere dedotta l’illogicità manifesta della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di cui alla lett. e) dell’art. 606, stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. … in proc. …., Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, ….., Rv. 224611). Dunque, al di fuori, della motivazione apparente, non è consentito a questa Corte alcun sindacato sulla motivazione.

8. Tenuto conto dell’ambito cognitivo, il ricorso sollecita complessivamente alla Corte una nuova e diversa valutazione degli stessi elementi in fatto già valutati dal Tribunale del riesame con riguardo alla ritenuta esterovestizione della società …. GMBH, invocandone una lettura alternativa e più favorevole in punto di fumus commissi delicti e, in particolare, sotto il profilo di presunte violazioni di legge in realtà insussistenti. Le doglianze devono essere dunque complessivamente disattese alla luce della motivazione con cui Tribunale del Riesame ha ritenuto sussistente il fumus con motivazione assolutamente congrua e non certo apparente.

9. Procedendo in ordine logico – sistematico, può seguirsi lo schema proposto dal P.G. nella propria requisitoria scritta. Possono, anzitutto, essere esaminati congiuntamente – attesa l’omogeneità dei profili di doglianza ad essi sottesi – il primo ed il quarto motivo di ricorso, con cui si denuncia in sostanza la mancanza del fumus delicti in ordine al delitto di cui all’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000, per mancato rispetto del meccanismo di cooperazione in materia di IVA di cui al reg. n. 904 del 2010 e della direttiva 2011/16/UE per come recepita nel nostro ordinamento nonché l’erroneo richiamo all’art. 4, TU IVA, quanto alla individuazione della residenza nel t.n) del soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto. Sul punto, deve anzitutto, essere rilevato come non sussistano dubbi alla luce di quanto emerge dall’ordinanza impugnata circa la configurabilità del delitto in esame. A tal proposito, si rileva come il procedimento traeva origine da una verifica fiscale IVA che, muovendo dagli accertamenti disposti nei confronti della società …. di …… s.n.c., investivano la ….. GMBH, da cui la predetta società italiana aveva acquistato beni per oltre 400.000,00 euro; la società tedesca, con sede legale dichiarata in Germania ed un magazzino in Austria, avente ad oggetto sociale il commercio all’ingrosso di ….., risultava avere socio unico l’indagato che deteneva altresì il 98% del capitale della … s.r.I., esercente la medesima attività della società tedesca, ma con sede a ….. Marche; dalle indagini svolte alla GdF e dall’analisi della banca dati VIES emergeva che la società tedesca aveva un volume di vendite in Italia tra il 2009 ed il 2014 di svariati milioni di euro, che rappresentavano il 100% del fatturato dal 2009 al 2012, circa il 98% del fatturato per gli anni 2013 e 2014 ed il 94% circa per il 2015; le perquisizioni operate presso la sede delle … s.r.l. e presso l’abitazione privata del… avevano condotto al rinvenimento della documentazione relativa al periodo soggetto a verifica e dell’intera contabilità ufficiale della …GMBH, insieme a documenti ritenuti significativi, ossia la quasi totalità delle e-mail riferibili alla ….. GMBH provenivano dal territorio nazionale; i numeri di telefono e fax risultavano riferibili indifferentemente all’una ed all’altra società; in Italia risulta siano stati accesi i cc/cc personali dell’indagato ed altri rapporti intestati alla società tedesca su cui transitavano gli incassi delle vendite effettuate in Italia; emergeva, pertanto, che pur avendo formalmente la sede in un altro Paese membro dell’UE, la … GMBH avesse il proprio centro operativo e decisionale in Italia, paese in cui svolgeva l’oggetto principale della sua attività coincidente con la …. s.r.I.; ne conseguiva, pertanto, anche per la …. GMBH, avente residenza fiscale all’estero, l’obbligo di presentare la dichiarazione annuale IVA avendo “stabile organizzazione” in Italia, dove avveniva la gestione amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari per il raggiungimento del fine sociale.

10. Sul punto, la ordinanza impugnata ha ritenuto sussistenti i requisiti per configurare la esterovestizione della società e cioè che detta società avesse stabile organizzazione in Italia, il che si verifica quando si svolgono in territorio nazionale la gestione amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari affinché sia raggiunto il fine sociale, individuando negli elementi fattuali dianzi descritti la prova della predetta stabile organizzazione nel Paese.

Affermazione coerente con quanto è già stato riconosciuto da questa Corte con la sentenza Sez. 3, n. 29724 del 26/05/2010, P.M. in proc. …, Rv. 248109, laddove si è affermato il principio di diritto secondo cui “L’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale IVA da parte di società avente residenza fiscale all’estero sussiste se questa ha stabile organizzazione in Italia”; stabile organizzazione in Italia della società formalmente residente all’estero che deve essere desunta da elementi fattuali rilevanti ai fini dell’accertamento della presenza in Italia della sede delle decisioni strategiche, industriali e finanziarie (c.d. alta amministrazione), nonché di quelle più rilevanti dell’amministrazione della società. In altri termini della conduzione in Italia dell’attività costituente l’oggetto sociale della medesima. Tale accertamento è stato compiuto dal Tribunale con una motivazione immune da censure e da vizi logici e giuridici.

Peraltro, se è vero che, nella valutazione del fumus commissi delicti quale presupposto del sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 1, c.p.p., il giudice del riesame non può avere riguardo alla sola astratta configurabilità del reato, ma deve tener conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e dell’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, indicando, sia pure sommariamente, le ragioni che rendono allo stato sostenibile l’impostazione accusatoria (tra le altre, Sez. 3, n. 26197 del 05/05/2010, Rv. 247694), dall’altro lato, il giudizio in ordine alla misura cautelare reale resta correlato con la fase delle indagini preliminari nella quale, come è noto, la delibazione che viene compiuta è diversa da quella piena della fase del giudizio.

Nella fase delle indagini preliminari, nella quale si inserisce la fase incidentale del riesame del provvedimento cautelare, il giudizio che viene compiuto è un giudizio di apprezzamento della plausibile sussistenza del fatto che non può tradursi in una anticipata decisione sulla responsabilità del soggetto indagato in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata, mediante una valutazione priori- taria della antigiuridicità penale del fatto (per tutte, Sez. 2, n. 26457 del 22/06/2005, P.M. in proc. …, Rv. 231959; Sez. U. n. 6 del 27/03/1992, Rv. 191327; Sez. 5, n. 6252 del 19/11/1998, Rv. 212511).

11. Quanto, poi, alla questione della mancata cooperazione tra autorità fiscali in base al reg. n. 904 del 2010, che il ricorrente pone alla base della diffusa ed articolata censura di cui al primo motivo, è sufficiente in questa sede richiamare quanto argomentato dal tribunale del riesame nell’ordinanza impugnata, in particolare evidenziando come l’attività di indagine svolta dalla GdF italiana rendeva superflua l’attivazione di qualsiasi richiesta con il collaterale organo tedesco, non soltanto per ragioni di natura sostanziale (in Italia, infatti, risulta essere stata rinvenuta tutta la documentazione contabile presso la sede della …. s.r.I., oltre alla più significativa documentazione bancaria e commerciale, dovendosi a ciò aggiungere che la circostanza che la società tedesca avesse in Italia la “stabile organizzazione”, oltre che sulla scorta di quanto in precedenza evidenziato, non risulta essere stato smentito, come del resto l’ordinanza chiarisce inequivo- cabilmente, dal documento con il quale – a prescindere dalla circostanza per cui lo stesso fosse redatto in lingua tedesca e non italiana – il …. era stato autorizzato a trasferire in Italia tutta la contabilità, essendo presente presso la sede della … s.r.l. anche tutta la corrispondenza bancaria e commerciale della società …. GMBH), ma anche per ragioni giuridiche, dovendosi in tal senso ritenere corretta la lettura del giudici del riesame circa l’inesistenza di un obbligo collaborativo tra autorità fiscali che, invece, la difesa dell’indagato vorrebbe far discendere dalla lettura del § 59 della sentenza CGUE 17.12.2015 in C- 419/2014,……..

Ed invero, sul punto, osserva il Collegio come il predetto § 59 così recita: Si deve quindi rispondere alla sedicesima questione dichiarando che il regolamento n. 904/2010 deve essere interpretato nel senso che l’amministrazione tributaria di uno Stato membro che esamina l’esigibilità dell’IVA per prestazioni che sono già state assoggettate a detta imposta in altri Stati membri è tenuta a rivolgere una richiesta di informazioni alle amministrazioni tributarie di tali altri Stati membri qualora una siffatta richiesta sia utile, se non indispensabile, per accertare che l’IVA sia esigibile nel primo Stato membro. Come reso palese dalla stessa (piana) lettura dell’affermazione della CGUE, che non necessita di alcun supplemento esegetico, detto obbligo di collaborazione (desumibile invero dalla forma verbale impiegata: “..è tenuta..”) estrinsecantesi attraverso la richiesta di informazioni che le autorità fiscali di uno Stato membro devono rivolgere all’autorità fiscale del paese UE ove ha sede il soggetto giuridico tenuto al pagamento dell’imposta sul valore aggiunto, non è assoluto, ma è subordinato ad una condizione, essendo infatti previsto che detto obbligo scatti “qualora una siffatta richiesta sia utile, se non indispensabile, per accertare che l’IVA sia esigibile nel primo Stato membro”, il che, peraltro, presuppone pur sempre che il soggetto passivo cui viene richiesto il pagamento dell’IVA (nella specie, in Italia) abbia svolto “prestazioni che sono già state assoggettate a detta imposta in altri Stati membri” (ossia, nella specie, in Germania), circostanza questa che non emerge né dal provvedimento impugnato né dal ricorso proposto, non avendo la parte ricorrente – neanche assertivamente – affermato che l’imposta sul valore aggiunto sulle prestazioni eseguite nell’arco temporale oggetto di valutazione fosse stata assolta nel paese ove la società ha sede legale.

Alla luce delle considerazioni che precedono, pertanto, perdono di spessore argomentativo le doglianze difensive di cui ai motivi primo e quarto del ricorso, atteso che ai fini della disamina obiettiva e realistica della condotta tenuta dall’indagato quale amministratore della …..GMBH e dei rapporti intercorrenti tra la ….. e la …. non necessitava dell’acquisizione della documentazione ufficiale dall’estero, risultando dallo stesso provvedimento impugnato che detta documentazione “ufficiale” era quella rinvenuta in Italia presso la … s.r.I., dunque non essendovi necessità /alcuna di attivare quella collaborazione che, in realtà, non era richiesta proprio per la circostanza, emergente dagli atti per cui:

a) in Italia, si era realizzata la quasi totalità del fatturato relativo alle cessioni di …. effettuate dalla ……;

b) che in Italia venivano stipulati i contratti con i clienti italiani;

c) che in Italia erano stati accesi i rapporti di c/c sia della …. che del …, conti su cui affluivano gli incassi delle cessioni di …, non essendovì stata, peraltro, necessità di accertare l’esistenza di cc/cc esteri proprio in virtù del rapporto di congruità tra il fatturato ed il denaro transitato sui conti;

d) che in Italia esisteva il centro direzionale dell’attività (come risultante proprio dalla circostanza che in Italia era stata reperita tutta la documentazione contabile, bancaria e commerciale). Né del resto rileva, come sottolineato dall’ordinanza impugnata, l’esistenza del rapporto di agenzia tra ….. e …, essendo stato accertato che quest’ultima non risultava disporre nemmeno di un dipendente avvalendosi di quelli formalmente assunti dalla ….. per conseguire il proprio oggetto sociale. Ciò, come sottolineato nell’ordinanza impugnata, univocamente dimostra l’esistenza di una precisa commistione tra le due realtà imprenditoriali, non rilevando nemmeno il fatto che la …. s.r.l. non operi come monomandatario della …. GMBH, atteso che ciò, come evidenziato nell’ordinanza con logica motivazione, non inficia comunque il quadro probatorio acquisito, ben potendo la società ita- liana certo svolgere attività per altri soggetti oltre che per la …: ciò che emerge però dall’ordinanza è che la … non aveva alcuna struttura operativa, avvalendosi di quella messa a disposizione della …., riferibile, come visto, sempre al …..

12. Esclusa, quindi, l’esistenza di un obbligo assoluto di richiedere le predette informazioni difettando la condizione – come sottolineato dallo stesso inciso di cui al § 59 della citata sentenza della CGUE – che “una siffatta richiesta sia utile, se non indispensabile, per accertare che l’IVA sia esigibile nel primo Stato membro”, correttamente deve quindi ritenersi che i giudici di merito abbiano ritenuto applicabile il disposto dell’art. 4, d.P.R. n. 633 del 1972, che invece) secondo quanto dedotto dalla difesa nel quarto motivo sarebbe stato erroneamente richiamato. Sul punto, è sufficiente ricordare quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte in sede tributaria, laddove si è chiarito che in tema di IVA, dal complesso della disciplina dettata dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e, in particolare, dalla disposizione contenuta nell’art. 17, quarto comma, di detto decreto, si ricava che, quando ricorrono il requisito oggettivo dell’esercizio abituale di un’attività commerciale – richiesto dall’art. 4 del decreto medesimo – e quello territoriale della stabilità in Italia di una organizzazione del soggetto non residente, gli obblighi e i diritti relativi alle operazioni effettuate da o nei confronti della stabile organizzazione non possono essere adempiuti o esercitati, nei modi ordinari, dal soggetto non residente, direttamente o tramite un suo rappresentante fiscale. La stabile organizzazione nello Stato, infatti, in quanto obbligata al pa- gamento ed alla rivalsa dell’imposta, oltre che al rispetto dei doveri formali di fatturazione delle operazioni attive e di registrazione delle fatture passive, costituisce in tal caso l’unico centro di imputazione fiscale delle operazioni riferibili al soggetto non residente e la stessa rappresenta anche la sola legittimata a presentare la dichiarazione annuale, nella quale vanno determinate l’imposta dovuta o l’eccedenza da computare in detrazione nell’anno successivo e formulata l’e- ventuale richiesta di rimborso (Sez. 5, Sentenza n. 6799 del 06/04/2004, Rv. 571913; Sez. 5, Sentenza n. 3889 del 15/02/2008, Rv. 602689).

Ed allora, appare di assoluta evidenza che tutte le cessioni poste in essere dalla …. GMBH, anziché essere ipotetiche operazioni intracomunitarie, risultavano poste in essere da soggetti operanti sul territorio nazionale con soggetti italiani, e pertanto avrebbero dovuto essere assoggettate ad IVA in Italia. L’aver omesso la relativa dichiarazione per i periodi di imposta oggetto di contestazione, rende evidente la configurabilità del fumus di cui all’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000, essendo in Italia, come accertato, la sede della direzione effettiva della società.

Del resto, questa Corte ha precisato che ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 5 D.Lgs. 74 del 2000, l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di una società commerciale avente sede legale all’estero ma operante in Italia non sussiste solo quando la sede della direzione effettiva della società non è situata nel territorio italiano, atteso anche quanto previsto dalle norme internazionali contro le doppie imposizioni fiscali (v., da ultimo: Sez. 3, n. 26728 del 25/06/2015, Pmt in proc. …, Rv. 264060).

13. Non miglior sorte merita la censura difensiva circa l’applicabilità, al caso in esame, della disciplina in materia di abuso del diritto – elusione fiscale, oggetto del recente intervento normativo attuato con il D. Lgs. 128 del 2015 che ha, a determinate condizioni, depenalizzato quelle condotte che prima, per effetto del formarsi di una giurisprudenza in tal senso, vi si erano state fatte rientrare.

Ritiene il Collegio di dover condividere quanto argomentato dal P.G. ed esposto nell’ordinanza impugnata a confutazione del secondo motivo, dovendosi infatti ritenere la non invocabilità del disposto dell’art. 10-bis, St. contr., nella specie con riferimento al co. 13 invocato dalla difesa dell’indagato. Ed invero, sul punto, bene osserva il tribunale del riesame laddove evidenzia come secondo il co. 12 le operazioni abusive possono configurarsi solo quando non possano contestarsi violazioni di specifiche disposizioni tributarie, nelle quali – sottolinea l’ordinanza impugnata – rientrano anche le norme penali in materia tributaria: circostanza, questa che (a prescindere dalla correttezza del richiamo all’art. 17, co. 2, d.P.R. n. 633 del 1972 che, secondo la difesa dell’indagato, sarebbe errata in quanto la società tedesca avrebbe applicato l’art. 41, co. 1, lett. A), d.l. n. 331 del 1993 trattandosi di cessioni intracomunitarie non imponibili) assume valenza assorbente, escludendo che nel caso di specie possa parlarsi “semplicemente” di abuso del diritto non codificato o di elusione fiscale, ma di vera e propria esterovestizione, con conseguente violazione della norma tributaria penale di cui all’art. 5, d. Igs. n. 4 del 2000. Bene, sul punto, argomenta infatti il P.G. laddove non solo esclude l’applicabilità dell’art. 10-bis St. contr. (e la conseguente operatività retroattiva ex art. 2, c.p., in realtà pacifica in quanto già oggetto di reiterata affermazione giurisprudenziale: Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015 – dep. 07/10/2015, Rv. 264951; Sez. 3, n. 35575 del 29/08/2016, P.C. in proc. …. e altri, Rv. 267678), proprio richiamando la giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di violazioni finanziarie, l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis I. 27 luglio 2000, n. 212, che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015 – dep. 07/10/2015, Rv. 264950). Correttamente, pertanto, il P.G. ricorda che nel caso di specie deve escludersi la sussistenza di un mero abuso del diritto penalmente irrilevante, atteso che l’indagato, oltre ad aver conseguito un vantaggio fiscale indebito, ha violato direttamente la norma penal-tributaria: la fattispecie contestata, ricorda il P.G., è infatti, quella prevista dall’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000, che sanziona di per sé la omissione della presentazione della dichiarazione, anche a prescindere dalla produzione di un effettivo danno economico per l’A.F.

14. Quanto al terzo motivo, con cui si censura l’ordinanza impugnata per non essersi uniformata ai principi della sentenza … delle SSUU di questa Corte, colgono nel segno le osservazioni svolte dal P.G. e dall’ordinanza impugnata. I giudici del riesame, sul punto, evidenziano come a carico della …. GMBH è stato operato il sequestro di taluni cc/cc versandosi quindi in ipotesi di confisca diretta, sempre possibile nei confronti dell’Ente (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014 – dep. 05/03/2014, Rv. 258647), laddove, invece, è stato disposto il sequestro per equivalente nei confronti dell’indagato, quale amministratore della …, in considerazione dell’incapienza di quanto vincolato a carico della società.

Sul punto, non v’è dubbio che siano stati rispettati i principi enunciati da questa Corte con la richiamata sentenza delle SSUU…. Ed invero, ammessa la sequestrabilità di quanto di pertinenza dell’Ente a titolo di confisca diretta (v. supra), è ben vero che in tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente prevista dagli artt. 1, comma 143, della I. n. 244 del 2007 e 322 ter cod. pen. non può essere disposto sui beni dell’ente, ad eccezione del caso in cui questo sia privo di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014 – dep. 05/03/2014, Rv. 258646). Ma, nel caso in esame, come chiarito dalla stessa ordinanza nei confornti dell’Ente è stata disposta solo la confisca diretta dei cc/cc, mentre quella per equivalente è stata disposta nei confronti dell’indagato, quale legale rappresentante, essendo incapiente quanto vincolato nei confronti della società. Si è già affermato, infatti, che è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato; tuttavia al fine di poter disporre la confisca diretta del profitto nei confronti della persona giuridica è pur sempre necessario che risulti la disponibilità nelle casse societarie di denaro da aggredire, non sussistendo un obbligo per la Pubblica Accusa di dover provvedere alla preventiva ricerca di liquidità o cespiti anche nel caso in cui risulti “ex actis” l’incapienza del patrimonio dell’ente (Fatti- specie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro per equivalente in quanto dagli atti emergeva una situazione di oggettiva illiquidità desumibile dalla autorizzazione alla C.I.G. e dalla approvazione del programma di crisi aziendale: Sez. 3, n. 6205 del 29/10/2014 – dep. 11/02/2015, … e altro, Rv. 262770). Orbene, nel caso di specie, proprio la situazione di incapienza della … GMBH rispetto al profitto costituito dall’ammontare dell’imposta evasa conseguente alla mancata dichiarazione IVA per i periodi contestati, legittimava l’adozione del sequestro per equivalente sui beni dell’indagato, apparendo peraltro condivisibile la correttezza della duplice previsione del sequestro diretto nei confronti della società e per equivalente nei confronti dell’amministratore indagato del reato tributario, e dell’esecuzione del provvedimento a fronte della parziale in capienza delle risorse societarie, laddove si consideri che la somma sequestrata sui cc/cc della …… GMBH è risultata pari a poco più di 182.000 euro, a fronte di un profitto derivante dal reato tributario contestato pari a circa 8 milioni e 500.000 euro.

15. Infine, quanto al quinto motivo di ricorso, con cui si censura l’ordinanza impugnata per non aver escluso l’elemento soggettivo del reato, lo stesso si appalesa parimenti infondato. Ed invero, è la stessa ordinanza impugnata a chiarire le ragioni del mancato accoglimento della tesi difensiva, sottolineando come il dolo specifico di evasione delle imposte sul valore aggiunto dovute non è escluso dall’esistenza di ulteriori finalità perseguite da chi commette il reato. Nella specie, puntualizzano i giudici del riesame, al di là dei differenziali di pressione fiscale tra Italia e Germania, risulta dimostrato l’interesse ad eseguire una cessione a prezzi altamente concor- renziali da parte di un soggetto economico che fa dell’acquisto e della rivendita del … il proprio core business, a nulla rilevando la circostanza che l’IVA verrebbe assolta in ogni caso dal cliente finale. L’IVA, si sottolinea, proprio per la sua configurazione, deve obbligatoriamente essere applicata ad ogni cessione intervenuta, ricorrendone i presupposti di legge, venendo altrimenti alterati i meccanismi di concorrenza tra i vari operatori economici, ciò che è stato ritenuto più che sufficiente, in sede di riesame, per ritenere sussistente l’elemento psicologico del reato contestato.

Trattasi di argomentazione immune da vizi e giuridicamente corretta, atteso che come ricordato dallo stesso P.G. nella sua requisitoria e dalla difesa dell’indagato, in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al “fumus” del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata; ne consegue che lo stesso giudice può rilevare anche il difetto dell’elemento soggettivo del reato, purchè esso emerga “ictu oculi” (v., tra le tante: Sez. 2, n. 18331 del 22/04/2016 – dep. 03/05/2016, … e altro, Rv. 266896). Orbene, nel caso in esame, tale emersione ictu oculi del difetto del dolo specifico normativamente richiesto, come argomentato nell’ordinanza impugnata, non risultava né risulta allo stato degli atti, proprio per la inevitabile sommarietà della delibazione condotta, donde anche tale argomento non coglie nel segno.

16. Il ricorso dev’essere complessivamente rigettato.

Fonte Suprema Corte di Cassazione

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