Energia, Green Deal, Dazi, Industria Italiana, Competitività Europea, Analisi, Previsioni e Soluzioni del Centro Studi di Confindustria
L’ITALIA RALLENTA NEL 2025 MA RIPRENDE SLANCIO NEL 2026
Nel 2024, il prodotto italiano è cresciuto del +0,7% annuo, grazie a contributi piuttosto diffusi tra le componenti: i consumi delle famiglie (+0,2%), gli investimenti fissi lordi (+0,1%), i consumi collettivi (+0,2%) e le esportazioni nette (+0,4%), che hanno compensato il decumulo di scorte. Nel 1° trimestre del 2025, gli indicatori congiunturali fotografano una fase ancora caratterizzata da una debole espansione.
Il PIL italiano nel 2025 è atteso crescere quasi in linea con quanto osservato nel 2024: +0,6%. Nel 2026, invece, è atteso riprendere slancio, al +1,0%. Per il 2025 si ha una revisione al ribasso di -0,3 punti percentuali ascrivibile, in larga parte, alla debolezza della seconda metà del 2024 e al peggioramento del quadro macroeconomico nel quale si contrappongono forze di segno opposto.
In positivo, nel 2025-2026 agirà:
il proseguimento del taglio dei tassi da parte della BCE, che entro fine 2025 porterà la politica monetaria al livello neutrale.
Secondo, la risalita del reddito disponibile reale totale delle famiglie, grazie al progressivo recupero delle retribuzioni pro-capite, il buon contributo dei redditi non da lavoro, l’aumento dell’occupazione totale, il calo dell’inflazione, sebbene gli ultimi due fenomeni si attenueranno nel 2025 e 2026. Insieme al calo atteso della propensione al risparmio (da fine 2025 e poi nel 2026) grazie al dipanarsi dell’incertezza, ci si aspetta che l’aumento del reddito continui a dare un buon contributo alla dinamica dei consumi.
Terzo, l’implementazione del PNRR: tra il 2025 e il 2026 le risorse programmate ammontano a circa 130 miliardi. Anche se non verranno spese tutte (l’ipotesi è che ne venga spesa la metà, 65 miliardi), daranno un importante contributo al PIL, in particolare agli investimenti in costruzioni, frenati dal venire meno degli incentivi all’edilizia residenziale.
In negativo:
la mancanza di sostegno agli investimenti in impianti e macchinari poiché il Piano Transizione 5.0 si è rivelato poco efficace nel 2024 e dovrebbe incidere poco anche nel 2025.
L’ennesimo rincaro dell’energia, che non tocca i picchi del 2022, ma minaccia la competitività delle imprese italiane e riduce il reddito reale delle famiglie.
Ma soprattutto, l’ondata di dazi annunciata dall’Amministrazione Trump, a cui l’economia italiana è particolarmente esposta, visto che gli USA sono il secondo mercato per i nostri beni.
Lo scenario di previsione CSC incorpora esclusivamente l’aspetto legato all’impennata dell’incertezza causata dagli annunci di dazi, con l’ipotesi che duri per la prima metà del 2025; se persistente, rappresenterebbe un forte limite alla crescita, in quanto influirebbe negativamente sulle decisioni di investimento domestiche e internazionali. Ma non include l’effetto di ulteriori dazi e contro dazi.
INCERTEZZA AL MASSIMO STORICO.
DAZI PESANO COME UN CONFLITTO COMMERCIALE
Per l’Italia, nel 2024 l’export di beni negli USA è stato pari a 65 miliardi di euro, oltre il 10% del totale. Tra il 2019 e il 2023, l’aumento di tale export ha contribuito per 4,5 punti all’incremento dell’export italiano totale (+30% cumulato). A livello settoriale, i settori industriali italiani più esposti sono bevande, farmaceutica, autoveicoli e altri mezzi di trasporto.
La reintroduzione dei dazi USA su acciaio e alluminio al 25%, secondo stime del Centro Studi Confindustria, porterà ad un calo medio di circa -5% dell’export di acciaio e alluminio negli Stati Uniti, con un impatto macroeconomico minimo (circa -0,02% dell’export italiano di beni).
Lo scenario peggiore di un’eventuale escalation protezionistica che comporti un persistente, invece che temporaneo, innalzamento dell’incertezza (+80% sul 2024), l’imposizione di dazi del 25% su tutte le importazioni USA, comprese quelle dall’Europa, e del 60% dalla Cina e l’applicazione di ritorsioni tariffarie sui beni di consumo USA esportati, avrebbe un impatto cumulato negativo sul PIL italiano, misurato come scostamento rispetto allo scenario base, del -0,4% nel 2025 e del -0,6% nel 2026.
La America First Trade Policy della seconda amministrazione Trump si annuncia più aggressiva e imprevedibile dell’approccio adottato nel primo mandato. Sarà cruciale:
avviare trattative con gli USA per conciliare le esigenze reciproche.
Ma è ancora più essenziale accrescere rapidamente l’attrattività europea, per evitare deflussi di capitali verso gli Stati Uniti, che è ciò che sta già accadendo e che i dazi accelereranno.
A causa dei ripetuti annunci sui dazi, gli indici di incertezza economica e politica sono al loro massimo assoluto all’inizio del 2025 e ciò influisce negativamente sulle decisioni di investimento, con grave pregiudizio per gli scambi lungo le filiere produttive globali.
Dal 2022, sono state varate a livello mondiale più di 3.400 misure protezionistiche all’anno, quasi 3.000 in più rispetto a quelle introdotte prima del 2020. Un’eventuale escalation protezionistica, generata da ritorsioni tariffarie tra le principali economie mondiali, minerebbe la struttura stessa degli scambi e della produzione internazionali, con profonde ricadute sul PIL globale.
INVESTIMENTI IN CADUTA, VIRANO IN NEGATIVO
Gli investimenti sono attesi arretrare quest’anno del -0,8% (in linea con la dinamica tendenziale negativa già osservata nella seconda parte del 2024) e recuperare nel 2026 (+0,9%), rimanendo sostanzialmente stagnanti nel biennio. Tale debolezza è determinata da:
gli effetti ritardati della politica monetaria restrittiva;
la crisi dell’industria;
l’elevata incertezza internazionale, dovuta ai dazi e alle tensioni geopolitiche;
l’affievolirsi degli incentivi fiscali, che avevano rappresentato uno stimolo importante in grado di sbloccare gli investimenti negli ultimi anni (Superbonus e Transizione 4.0).
Infine, la spesa in impianti e macchinari è arretrata per tutto il 2024, prima per un effetto “rinvio” legato all’attesa diTransizione 5.0, poi per la scarsa attrattività della misura a causa di una serie di difficolta operative. Si prevede che rimangano in contrazione nella prima parte del 2025.
LA COMPETITIVITÀ EUROPEA È TROPPO BASSA
La crescita del PIL dell’Eurozona è prevista del +0,8% nel 2025 e di +1,0% nel 2026, dopo il +0,7% nel 2024. Non c’è da aspettarsi nel prossimo futuro una crescita sostenuta dell’Area a causa del permanere di alcuni freni strutturali:
In primis la crisi della Germania non appare congiunturale.
Altro fattore che continua a frenare la crescita dell’Area è l’elevato prezzo dell’energia. Il prezzo del gas è salito a 50 euro/mwh in media a febbraio 2025 (42 a marzo), con un marcato trend di rincaro rispetto al minimo di 26 euro registrato a febbraio 2024. Soprattutto, è molto più alto che negli USA (con un rapporto di 4 a 1).
L’Europa sta progressivamente perdendo competitività nei confronti di Stati Uniti e Cina. Dal 2007 ad oggi l’UE ha registrato una crescita media del +1,6% annuo, contro il +4,2 degli USA e il +10,1 della Cina, a prezzi correnti.
Il gap accumulato con gli Stati Uniti dal 2007 è di oltre 70 punti percentuali di PIL.
La bassa produttività europea deriva da minori investimenti in media, circa 1,1 punti di PIL l’anno in meno nella UE rispetto agli USA.
Guardando agli investimenti in R&S, dal 2000 ad oggi, il gap accumulato rispetto agli Stati Uniti ammonta a oltre 17 punti di PIL.
Il mancato completamento del mercato unico europeo e la mancata armonizzazione di alcune regole sono tra le principali cause di questi ritardi, perché creano ostacoli allo scambio di beni e servizi all’interno dell’UE: secondo stime del FMI, questi fattori possono aumentare del 44% i costi di produzione dei beni manifatturieri, del 110% per i servizi.
Negli USA il peso di queste barriere per il commercio di beni fra Stati vale circa il 13%. Se l’UE riuscisse a diminuire queste barriere al livello degli Stati Uniti, la produttività aumenterebbe del 6,7%.
IL PESO DELLA BUROCRAZIA FRENA L’ECONOMIA EUROPEA.
LA SFIDA ENERGETICA E’ UN NODO CRUCIALE DA RISOLVERE
La proliferazione normativa è un altro fattore che frena l’economia europea. Un costo molto elevato per le imprese europee diminuisce l’attrattività dell’UE come luogo per fare impresa: ad esempio, uno studio recente ha valutato che la compliance al GDPR (che disciplina il modo in cui le aziende trattano i dati personali) ha comportato una diminuzione dell’8% in media dei profitti e del 2% delle vendite; il Rapporto Draghi ha indicato che, tra il 2019 e il 2024, l’UE ha approvato circa 13.000 atti, più del doppio rispetto agli USA.
Infine, la sfida energetica è un nodo cruciale da risolvere.
Negli ultimi trent’anni, i consumi di energia nel mondo sono raddoppiati, la quota europea è scesa dal 17% al 9%, e dal lato dell’offerta, le fonti fossili coprono ancora, come allora, oltre l’80% del fabbisogno.
Le scelte compiute sinora a livello europeo soddisfano solo l’obiettivo della sostenibilità, ma mettono a serio rischio sia la crescita che la sicurezza europea.
Per questo sarà necessario rivedere diversi meccanismi, come ETS e CBAM, che comportano significativi svantaggi competitivi per le imprese europee.
OCCUPAZIONE STABILE ANCHE CON PRODUZIONE DEBOLE.
MA PER QUANTO ANCORA?
Riguardo l’occupazione, nel 2025 e 2026 il ritmo di crescita dell’input di lavoro, misurato in termini di unità equivalenti a tempo pieno (ULA), è atteso riallinearsi con quello dell’attività economica (+0,5% e +0,7%, ritmo appena inferiore a quello dell’occupazione in termini di teste), contrariamente a quanto accaduto negli ultimi due anni (ULA +4,7% cumulato, PIL +1,4%).
Ciò permetterà un miglioramento della produttività del lavoro, dopo i forti cali negli anni precedenti.
Nei servizi privati l’aumento della produttività media è in parte spiegato da effetti di ricomposizione, con comparti a produttività del lavoro elevata in espansione (come il settore dell’informazione e comunicazione) e comparti a bassa produttività il cui peso si è fortemente ridimensionato (come i servizi di arte e intrattenimento).
INDUSTRIA ITALIANA: IL DECLINO RISCHIA DI DIVENTARE STRUTTURALE
La crisi dell’industria non riguarda solo l’Italia (-8,2% la produzione tra metà del 2022 e fine 2024), ma è internazionale ed è caratterizzata da una forte eterogeneità settoriale.
L’automotive è il settore più colpito in tutti i paesi europei, ma il calo è marcato anche nei settori della moda e nella lavorazione dei metalli: se consideriamo la produzione manifatturiera al netto di tali settori, nel 2024 in Italia si è ridotta in misura moderata (-1,5%), mentre è scesa di più in Germania (-2,6%) e cresciuta in Spagna (1,6%).
A ciò si sommano: la crisi della Germania, come per il resto dell’Eurozona, la domanda debole in tutta l’Eurozona dopo anni di alta inflazione e alti tassi, la preferenza delle famiglie per i servizi rispetto ai beni che ha contribuito alla debolezza della domanda per l’industria, il costo elevato dell’energia in Europa e soprattutto in Italia.
Alcuni di questi problemi potrebbero risolversi nel breve-medio termine (preferenza per i servizi, debolezza europea), altri sono destinati a durare più a lungo (costo dell’energia, crisi tedesca, auto, moda).
Va comunque sottolineato che in Italia la crisi dell’industria è una crisi di produzione, molto meno di valore aggiunto (-3,5% nello stesso periodo), investimenti ed esportazioni, sicuramente non di occupazione che invece è aumentata anche nei settori più colpiti.
Diverse possono essere le ragioni dietro a questa anomalia: un decumulo di scorte di beni intermedi; una ricomposizione all’interno del manifatturiero verso comparti a più alto valore aggiunto; un miglioramento della qualità delle produzioni.
I dati che verranno rilasciati nei prossimi tempi ce lo chiariranno.
Aprile 2025
Centro Studi
Confindustria
